giovedì 25 settembre 2014

Gente da taverna


Pubblichiamo come anticipazione la versione per il blog di un articolo dal prossimo numero di Segn/Ali. 

Buon viaggio e buon ascolto.



GENTE DA TAVERNA
«…Se tu penserai, se giudicherai 
da buon borghese… 
li condannerai a cinquemila anni
più le spese, 
ma se capirai, se li cercherai fino in fondo 
se non sono gigli son pur sempre figli 
vittime di questo mondo.»

Fabrizio De André “La città vecchia”


In tempi di crisi si è propensi ad avere due atteggiamenti differenti. Il primo, che potremmo definire dionisiaco e tragico, ci porta ad introiettare il dolore della vita e a espanderlo per renderlo concretamente un atto di verità costitutivo dell’essere che è in crisi in quanto vivente e che vive per segnare la crisi. Un termine, «crisi», che etimologicamente significa «rottura, frattura». L’ideogramma cinese che designa il concetto di crisi contiene due segni, di natura complementare come è tipico della filosofia taoista: il primo analogo al significato etimologico, il secondo, con il significato di «opportunità». Certamente quest’accezione è alla base del secondo atteggiamento, di tipo apollineo, di fronte alla crisi, il rivendicare l’opportunità per una nuova creazione, per una nuova poesia.

Da secoli distinguiamo i due atteggiamenti, incasellandoli nelle categorie di pessimismo e ottimismo. Ma così come è visibile negli ideogrammi cinesi, pure nella cultura e nell’inestinguibile pensiero umano convivono e si compenetrano i due poli di Dioniso e Apollo. Per saperlo con certezza rivolgetevi ad un greco: scoprirete che, in fondo, entrambi sussistono in ogni istante della vita, fino quasi a toccarsi.

Tale convinzione riverbera per tutta la lettura del libro Rebetiko – vita, musica, danza tra carcere e fumi dell’hashish, Edizioni Nautilus di Torino, un volume che ci racconta la storia di questa scena culturale sorta alla fine dell’ottocento e sviluppatasi fino a fiorire appieno tra gli anni ‘20 e gli anni ‘50 del XX secolo, tra le sponde sconfinanti di Grecia e Turchia, all’interno di un milieu di sottoproletari urbani. Un ipocosmo sociale che ha vissuto i drammi di guerre, di esodi, di dittature, di imprigionamenti, discriminazioni e angherie del potere sulla propria pelle. Un milieu urbano condannato a confrontarsi costantemente con la «crisi».

Questa scena musicale e culturale nasce ed è pertinente alle periferie, ai confini soggetti a contaminazioni, e a luoghi di ristoro e perdizione, approdi e derive del vivere. Il rebetiko è una musica urbana da taverna del porto. Ecco una scena che potremmo vedere: una costruzione bassa con le serrande mezze abbassate, in una piccola via o un vicolo, una taverna quasi impercettibile, celata agli occhi delle autorità prepotenti. Al suo interno pochi tavoli, gente che beve e fuma nella semioscurità. Volti segnati dalla durezza della vita, dallo sguardo ora torvo ora assente. Nell’aria il suono di alcuni cordofoni, due buzukia e unbaglamas, i primi affini a dei mandolini, il secondo del tutto simile a questi, ma in formato assai ridotto, con un suono più penetrante e acuto. Accanto a loro una chitarra, e forse anche uno strumento a percussione. Attorno a certi tavoli potremmo vedere persone abbandonate, in uno stato quasi catatonico, con lo sguardo del tutto assente e sognante; in mezzo a loro, ancora visibile, un narghilè artigianale autocostruito. Sono i fumatori di hashish che si narcotizzano con questa droga per non patire le asprezze del tempo, per evocare e cercare conforto in sogni dolci. Allo stesso modo potremmo vedere qualcuno alzarsi e compiere passi di danza, come rapito da un dáimon, e ugualmente sembrerà che cerchi una catarsi di qualche tipo, sia dionisiaca che apollinea. Le strofe che viaggiano mormoranti sulla musica ci parleranno innanzitutto della vita di questo ipocosmo. Sono storie d’amore, di nostalgia di posti, di esperienze di carcere o di vita quotidiana tra le taverne, il bere, il fumare, e i patire i colpi dell’amara sorte.

Così scopriamo leggendo questo libro, che presenta alcuni testi di Elias Petropulos, che da «antropologo urbano», come si definiva, descrive, racconta e spiega, aprendo il ragionamento, senza mai giudicare, anzi condannando le facili sentenze di un sapere ufficiale, accademico e giuridico, che opprimevano il sottoproletariato urbano, col quale invece si schiera Petropulos. Egli se mai problematizza, crea connessioni, approfondisce e documenta, non accettando mai compromessi, ma rinviando alla vita stessa qualsiasi soluzione. Perché la musica e la cultura del rebetiko sono innanzitutto un’arte di vivere.

Il libro, sintetico ed essenziale, accompagnato da un bel disco con esempi di musica rebetika tradizionale del periodo, è arricchito di ulteriori contributi (note, immagini e appendici) che collezionano i segni e le particolarità del rebetiko, approfondiscono per il lettore che non li conosce gli sfondi storici nei quali apparve questa scena, e presentano i ritratti dei principali autori di rebetiko presenti sul cd. Una musica, il rebetiko, che è andata scomparendo con l’avvento delle mode turistiche omologate, ma che nelle sue tradizioni, soprattutto in questi periodi pieni di crisi, porta ancora forte il messaggio e la carica poetica della sua arte di vivere.

Negli ultimi anni, pullulano omaggi al rebetiko da parte di più artisti, musicisti e scrittori. Segno di questi tempi di crisi. Possiamo sicuramente citare il lavoro di Vinicio Capossela con musicisti greci, con le sue canzoni reinterpretate in chiave rebetika. Ma anche il bel libro a fumetti di David Prudhomme. Oppure le interpretazioni postmoderne di Yannis Kyriakides e Andy Moor(Yannis kyriakides e Andy Moor) che ripropongono questa musica, nell’album “Rebetika”, in un profluvio di nuove contaminazioni che attraversano e toccano i suoni del punk e dell’elettronica.

Quest’arte di vivere la potrei definire come figlia della dimensione portuale dell’esistenza. Voglio ora allargare lo sguardo, errante, nel tentativo di riabbracciare i tempi cosmici con una serie di libere connessioni. Prendetele, se volete, come azzardi poetici…

Il porto è un luogo carico di simboli. Prima dei simboli però stanno le potenze che nel tempo antico erano avvertite come déi, numi che illuminavano la coscienza dell’umanità. Prima della tecnica e dei sofismi, il mondo o cosmo suggerisce la presenza dei numi, e di per sé le voci degli déi ci avvertirebbero di fronte a quei piccoli golfi dalle acque profonde, quasi uterine, protettive e nutritive, che consentono la (psico)nautica. I porti sono luoghi di confronto, di scambio, di narrazione, di visioni estatiche e misteriose. Vi transitano saperi, idee, conoscenze, ma anche traumi, ferite, e cose, beni materiali ed immateriali. Anche qualche mostro che dal mare aperto dell’esistenza è entrato nel nostro cervello per non uscirne mai più (ma forse era già lì ed è solo emerso).

Il mito ci consegna la storia di Melicerte, figlio di Ino, e fratello di Learco. Ino era la figlia di Cadmo e Armonia, ed era sorella di Semele e sposa di Atamante, re tebano. Uccise i figli che il marito aveva avuto da Nefele. Adottò il dio Dioniso, figlio di Zeus e di sua sorella Semele. A causa di ciò, Hera adirata fece impazzire Atamante che cacciando uccise il figlio Learco scambiandolo per un cervo. Ino, disperata, impazzita, buttò Melicerte in un calderone bollente, e poi con il corpo di lui si buttò in mare. Zeus chiese allora l’intervento di Poseidone il quale tramutò Ino e il figlio Melicerte in due divinità, coi nomi di Leucotea e Palemone, protettrici dei naviganti, che soccorrevano durante le tempeste.

Palemone era per i latini il dio Portunus, il cui tempio sorgeva presso il ponte Emilio, ove era lo scalo delle merci. Palemone/Portunus era il dio del porto. Gli era dedicata un festa (i Portunali) che cadeva il 17 agosto, data in cui si raggiungeva l’apice della siccità, e occorreva propiziare la rottura delle acque dal cielo, affinché la vita continuasse a scorrere. Lo stesso giorno, e dunque in coincidenza mitologica, venne eretto un tempio in onore di Giano, dio protettore dei cicli, e degli inizi, che sovraintendeva alle soglie – o confini.

Ino, diventata Leucotea «la dea bianca», era invece per i latini divenuta Mater Matuta, divinità dell’aurora, insieme a Giano, Pater Matutinus. Mater Matuta era la protettrice delle partorienti, al pari di un’altra dea che sovraintendeva al parto, Lucina – divinità ora identificata come epiteto di Hera/Giunone, dea del matrimonio e della famiglia, ora identificata con Artemis/Diana, dea della caccia, dea lunare, vergine, protettrice delle donne, gemella di Apollo.

In questa arborescenza cosmica, in questo succinto e assai parziale tratto della mitologia classica, assistiamo all’avvicinarsi echeggiante del porto con il parto. È questo un arco mitico che si tende tra il senso dionisiaco e quello apollineo. Il porto con la sua simbologia, e altrettanto il parto con le sue potenze, mi richiamano un’altra e ben più forte potenza, Anankē, la Necessità. Poiché entrambi i luoghi, questi due palcoscenici della vita, con i lorobacini, non prescindono da una costrizione che è proprio il segno distintivo della Necessità, il cui simbolo è il giogo.

La grecità, millenni prima del rebetiko, ci ha però consegnato un’altra testimonianza: il tentativo di subordinare la necessità alla bellezza. Un’altra potenza archetipica è chiamata in causa in questa cosmica partita: Athena, dea del sapere. È Athena, nella sua doppiezza verginale di dea che fa fiorire la conoscenza, e di dea guerriera, che riconduce il giogo della Necessità al pensiero, sovraintendendo alla Norma in forma poetica, grazie ad una potenza a lei legata, la Persuasione.

Allora mi ritornano in mente, opposte e antagoniste alle asprezze della guerra, della carestia, delle angherie del potere, la parole di una filosofa, Hannah Arendt, che si opponeva tanto alla violenza quanto alla confusione tra autorità ed autoritarismo (che se mai segna la sconfitta dell’autorità), e con pervicaci tentativi di persuasione ammoniva che «la democrazia va partorita ogni giorno».


Ho errato con lo sguardo tra gli astri del cosmo, ma sono tornato alla fine all’ipocosmo del sottoproletariato urbano del rebetiko, poiché è in sperduti naviganti come quelli delle taverne greche di qualche decennio fa, o come negli altrettanto sperduti naviganti delle periferie mondiali, materiali e mentali di oggi, che si confrontano costantemente con la crisi, che si può venire a contatto con un’arte di vivere che è una visione decisiva e poetica dal fortissimo valore politico e universale.
Enea Solinas


Bibliografia e discografia apertamente citata:

Elias Petropulos – REBETIKO – Vita, musica danza tra carcere e fumi dell’hashish, Nautilus Edizioni, 2013. – Libro + cd.

Roberto Calasso – Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi, 1988

James Hillmann – La vana fuga dagli déi, Adelphi, 1991

David Prudhomme – Rebetiko, Coconino Press, 2010

Vinicio Capossela – Rebetiko Gymnastas, Warner Music, 2012

Yannis Kyriakides&Andy Moor – Rebetika – Unsounds, 2010



lunedì 24 marzo 2014

Nikos Mathessis, il Trellakias, (il pazzariello), (1907- 1975)



 

Sono cresciuto a Pireo. Vivevamo ad Agios Nikolaos, vicino alla Dogana. Mio padre era uno dei più grandi commercianti di pesce al mercato di Pireo. Aveva un banco di pesce al mercato centrale di Pireo. A me piacevano le lettere e la pittura, e da  ragazzino disegnavo, dipingevo e scrivevo versi. Ma mio padre non mi ha lasciato  finire il liceo. Mi ha fatto ritirare e mi ha preso con sé al mercato dicendo: "E qua il pane, gli artisti muoiono di fame!"
All'età di 15 anni, nei primi anni '20, mi sono trovato al mercato del pesce, una Babilonia di criminali, dove la lama a doppio taglio usciva  per un nonnulla. Trovavi di tutto, macellai, verdurieri,  pescatori, barcaioli, cocchieri, chasisopotes e bulli. Ero in un inferno, nel fango del mercato.
Allora il Pireo era una città molto feroce. Gli omicidi a Karvuniarika e, a Troumba e Tselepi erano all'ordine del giorno. Per quanto riguarda i tekè era pieno, sulla costa di Pireo, a Panagitsa, a Aghios Nilos, a Aghios  Nicolas, a Ghiftika, a Troumba e Hatzikyriakio. E più andavi in là , verso Aghios Dionisios, li fumavano per strada. Giocavano  a dadi sulla strada , passava il poliziotto e nessuno li dava importanza, piuttosto  tiravano fuori la doppia lama cosi poteva vederla. A Pireo c’era anche la polizia a cavallo. Bordelli c’erano solo nel quartiere Vourla, che dopo sarebbero diventati prigioni.   Le donne che esercitavano a Vourla non potevano uscire, era severamente proibito, e i militari tenevano sorvegliata l’area dei bordelli. Ma gli amanti-magnaccia  avevano i loro trucchi e a mezzanotte saltavano dentro eludendo le guardie . Ma néssuna delle donne ha fatto mai la spia. Ogni tanto accadeva qualche omicidio, ovviamente a causa delle donne. La stessa  donna che a causa sua qualcuno aveva commesso reati doveva  mantenerlo finchè non usciva di prigione. Non poteva fare altrimenti perché l’avrebbero uccisa gli amici del amante-magnaccia. Ma quando l’amante criminale usciva dal carcere, il suo primo lavoro era quello di sposarla, cosi imponeva la regola. E per il skylomaghas la legge non scritta era dura!



Negli anni °30 Drapetsona era un ghetto, non come oggi che è diventata come Kolonàki! Era una delle piazze più importanti dei maghes. Frequentavano i tekedes e i bordelli di Vourla gente di ogni risma. A Vourla c’erano più di 500 prostitute e tutto il mondo che gira attorno a loro. Avevo conosciuto una puttana di Vourla, viveva a Karvuniàrika, si chiamava Lucy. Si è suicidata nel '33, aveva sballato e poi si è accoltellata da sola. Questa era Drapetsòna, baracche, tekedes, traffico di droga in piena espansione, bordelli, ruffiani, criminali, contrabbandieri, maghes, prepotenti, truffatori, eroinomani, haschissomani, gente dal coltello facile, skilòmaghes, avanzi di galera. La polizia girava giorno e notte e ogni tanto faceva delle retate. Quelli anni erano di fuoco, si uccideva per due soldi, per una donna o per capriccio. Fin da piccolo, ero vivace, e ho fatto un nome nella piazza di Pireo. Era l'epoca dei koutsavàkides e dei daìthes. C’erano i tekès nascosti, dalla porta chiusa.
Per entrare dovevi suonare la porta  da iniziato e il teketzìs ti vedeva da qualche buco nella porta. C’erano le bettole che avevano la licenza da Kafenìo. In ogni bettola e kafenìo di quartiere c’erano appesi 3-4 buzùkia e baglamàdes per la marmaglia che lo frequentava. In questi kafenìa non smettevano di suonare, giorno e notte, il buzuki vari màghes, kopromagkes, skylomagkes, e màghes veri che avevano appreso a suonare nella vera scuola, quella del carcere. Sentivi sempre belle melodie del buzuki e canzoni del carcere e del tekè. Si mischiavano il canto del buzuki con il profumo del hashish dai narghilè e dai spinelli. Ovviamente per entrare dovevi aver la faccia, essere uomo della piazza, con una carriera criminale.



In questo mondo sono entrato anch’io e ho cercato di diventare il primo màghas. Volevo essere il primo palikàri e ho iniziato le sfide e a rispondere alle provocazioni con spavalderia. Tutti i kutsavàkides e i daìthes mi rispettavano. Ero diventato famoso, mi conoscevano anche le pietre, non ero un machalòmaghas, un maghas del quartiere. Andavo nelle altre piazze, dove c’erano altri màghes e gli provocavo. Obbedivo solo alla legge del màghas. Perché noi avevamo le nostre leggi, i nostri valori. Non tenevamo conto ne di Dio ne dei poliziotti, e non mi piacciono per niente gli sbirri. La cosa che ci piaceva, la facevamo senza dar conto a nessuno. Ma non frequentavo i bordelli, né i magnaccia, neanche gente di bassa lega. Facevo compagnia con i migliori màghes del epoca e con kutsavakia che non accettavano neanche il sorriso. Erano màghes famosi, duri, da tutti temuti, uomini che prima di rivolgerli la parola facevi le prove per un mese. Se qualcuno intendeva sfidarli passava prima dalla chiesa per l’ultima comunione.
Il cane, un bulldog di solito, era necessario ai daìthes, e accompagnava il suo padrone ovunque. Ogni volta che andavo al tekè prendevo anche il cane insieme. Narghilè io, narghilè anche il cane. Alla fine era diventato il primo cane hassiklìs del Pireo! Una volta arrivati al tekè, prima che io potessi entrare, il cane era già dentro e iniziava ad abbaiare ! Voleva il narghilé! Fumava e sballava. Era un cane màghas e hassiklìs.
Fin da piccolo mi piaceva dipingere e scrivere versi. Nel 1930 ho iniziato a scrivere canzoni per le registrazioni. La prima canzone che ho registrato era Mes’tu Nikìta ton tekè, Nel tekè di Nikìtas,:

Charmànis ime ap’to proì, pào ghia na fumàro/

Mes’stu Nikìta ton tekè, pu echi fino mavro


In carenza sono dal mattino, vado a fumare
Nel tekè di Nikìtas che ha il nero raffinato

Allora quando uscivano questi dischi, la polizia ci attenzionava, per causa del hashish, narghilè e cose cosi. Una volta, ero andato  a Drapetsona e dove c'è il ponte di ferro a Aghios Dionìssios, si è avvicinato un poliziotto e mi ha detto: “Non basta che vi lasciamo fare ciò che volete, ma lo mettete anche nei grammofoni e ci provocate” . Una parola tira l’altra, mi sono incazzato di brutto. Gliene ho dette di tutti i colori. E’venuto giù il finimondo, l’ho insultato pesantemente: “Ti metterò il narghilè nel culo, bruto stronzo, te e la tua corona”.



Nel 1938 ho fatto l'omicidio. C'era un màghas che era il terrore di Freatida, a Pireo. Era feroce e sanguinario, carico di sfide e vecchie condanne, con molti anni di carcere alle spalle. Era un skilòmaghas che uccideva per un non nulla. Ho avuto da dire con lui in un tekè, e siccome c’erano anche altri màghes presenti, questo li ha dato fastidio e mi aspettava al varco. Così arrivò un pomeriggio, al mercato, nel mio banco insieme a un suo cugino soldato, noto criminale. Mi attaccarono al improvviso, senza dirmi una parola. Il cugino mi ha tenuto la mano destra e lui, con un falcetto mi ha colpito al collo e alla spalla sinistra. Perdevo sangue e caddi in ginocchio dal dolore. Allora prima che mi finivano ho estratto una pistola a sei colpi, marca Uniate, gli ho sparato quattro volte! Lo colpirono due proiettili e l’ho ucciso. Mi hanno trasferito all’ospedale in afasia, mentre suo cugino è stato arrestato. Una volta guarito, sono rimasto sotto accusa per un po’ ma poi usci su cauzione e assolto per legittima difesa. E poi, il Venerdì Santo, sono andato alla sua tomba, ho sballato e ho cagato sopra! Perché l’avevamo detto che chi dei due uscirà vivo andrà a cagare sulla tomba del altro. E così ho fatto.
Lentamente il Pireo è cambiato. E’ arrivato il progresso. Si è organizzato il porto. Aboliti i barcaioli, andati i vetturini. Sono sparite le chiatte che erano un asilo per i ladri. I bordelli sono stati chiusi. I tekèdes sono stati spenti. Gli amanèdes non si sentono più nelle strade illuminate e gli ubriachi non esistono. Le baracche nei sinecismi sono sparite e al loro posto sono stati costruiti palazzi di due e tre piani. I pollai e le bettole di Drapetsona sono stati demolite e sono spuntati palazzi di otto piani. La Drapetsona è diventata il Kolonaki di Pireo. Ognuno ora ha l’auto e invece di ouzo o vino beve coca - cola... Ma i màghes e i rebètes non spariranno finchè il Pireo rimarrà un porto. Ci sono, si mescolano insieme a noi, si siedono accanto a noi, ma in un'altra forma. Non aspettate di vederli con la coppola e la cintura, a parlare màghika e kutsavàkika. Vive quindi il rebetis, non muore mai, perché ha sette vite. Perché non c’è giardino senza spine, non c’è campo senza erbaccia . Manca il Marzo dalla quaresima? Così non mancherà  il rebet-asker.
Qualche giorno fa è morta mia moglie. Le ho scritto una canzone un paio di giorni prima di morire:

Me dìchos màtia ke milià/ to Golgothà anevènis
Ghiatì kyrà mu viàzesse/ke den me perimènis

Senza occhi e parola sali il tuo calvario
Perché hai fretta mia signora e non aspetti anche me?

Doveva aspettare, ma lei aveva fretta. Non so perché. Tanto tra un po’ ci andrò anch’io. E’il cancro. Da un anno si è insediato nella mia gola! Sua Maestà il cancro! Lo nutro con le sigarette e l’alcol, perché non voglio vivere. L’altro ieri che mi ha preso la prima crisi mi hanno portato in ospedale e mi volevano addormentare, per aprirmi la gola. Guarda cosa volevano fare! Volevano addormentarmi! Ho detto loro no, no cento volte! Voglio essere sveglio per godere le ultime pene della mia vita. E così è successo, le ho godute!

L’ho scappata fino adesso ma tra un po’ andrò correndo al Ade. L'altra notte ho sognato di nuovo mia moglie che mi diceva: "Vieni!". Sono pronto per andar di là. E li dove andrò ci sarà tutta la vecchia guardia: Tsitsànis, Papaioànnou, Stràtos, Bàtis, Anèstos, Markos, Hatzichrìstos, Keromytis, Rosa e  Bellou. La compagnia è pronta nel Ade e mi aspetta.


martedì 4 marzo 2014

Petropoulos e Sex drugs & rebetiko a El Paso





Venerdì 7 Marzo / SEX DRUGS + REBETICO
al Condorito, Via stazione 64 – Margarita (Cuneo)
  Elias Petropulos “Rebetiko”: “Vita, musica, danza tra carcere e fumi dell’hashish”
 insieme alla compagnia 
 Sex drugs & Rebetico direttamente da Toulouse
www.condorito.it


Sabato 8 marzo, tappa della combinazione sexdrugsrebetiko/Petropoulos 
al  Circolo Culturale Barbarià., alla località Mentoulles (Fenestrelle) in Val Chisone e

Domenica 9 marzo, alla libreria Calusca-kox18,
 a Milano in via Conchetta 18

martedì 21 gennaio 2014

Rebetiko di Petropoulos, con gli Evievan al Kirkuk kaffè


A Torino, domenica 9febbraio2014
con la straordinaria partecipazione degli EVIEVAN
compagnia musicale che traccia le strade del rebetiko in italia
parleremo di rebetiko e di petropulos
sentiremo lo zeibekiko bevendo e mangiando
al kirkuk kaffè, incrociando strade levantinorientali
strade musicali ma sopratutto
strade dell'arte di vivere.