mercoledì 12 ottobre 2011

Jacques Lacarrière : Rebetika tragùdia


 
Se dovessi dire in una sola parola quello che, nel corso di questi anni passati in Grecia, è stato per me l’aspetto rivelatore (quello che porterei con me su un’isola deserta), direi: rebetika.
Ho citato più volte questa parola, senza spiegarla analiticamente. Ma non posso parlare in modo distaccato di questi canti così caratteristici che sono, ancora oggi, uno degli esempi più chiari di una civiltà popolare vivente.

Monte Athos


Non è mia intenzione, in questa sede, riassumerne la storia (d’altronde in parte sconosciuta) e neanche farne un acritico panegirico; perché si tratta, principalmente, di canti e danze di cui nessuno scritto saprebbe sostituire l’ ascolto e la visione. Queste melodie sono legate ai miei anni in Grecia e accompagnano sempre, nella mia memoria, ognuno dei miei soggiorni in questo paese. Il 1950 è per me l’anno di Creta e del Monte Athos, ma anche quello di “Ase me, ase me, na se lismoniso”, - “Lasciami, lasciami, dimenticarti” – di Tsitsanis. Il 1952 è l’anno del Monte Athos, di Salonicco, di Mikonos ma anche di “Ghennitika ja na pono”. – “Sono nato per soffrire” – anche questa di Tsitsanis. Il 1953 è l’anno di “ime békris kai batiraki” – “Ubriacone e senza un soldo” – di Mitsakis, penso.

Parlare dei rebetika, cioè delle canzoni dei rebetides – parola che si dovrebbe ormai saper tradurre ma che si sottrae come pallikari, levèndia, philotimi, kaimos, meraki e tante altre, diciamo che Rebetis significa (in greco) un uomo dei bassifondi, un uomo del “milieu” o semplicemente del sottoproletariato urbano: signi­fica un uomo povero ed emarginato, un uomo dello strato infimo della società, chiarendo subito che si tratta del significato e del valore borghese del termine.
Precisamente, il rebetiko rivalorizza il termine ipocosmos per farne il vero mondo (il mondo dove conoscia­mo la vita, la sofferenza, la realtà, in contrasto con il mondo convenzionale e falso della borghesia e dell’in­tellighenzia).

Alla fine, poter dire qualcosa sugli zeibekika, le danze che accompagnano questi canti, i buzukia e i bagla­mades, gli strumenti che sono loro associati insieme a tutto il mondo che ruota intorno a queste canzoni e a questa poesia popolare (la taverna, il vino, la miseria, la notte, la morte, la prigione, i porti, l’hashish, il narghilè, il deke e la mastoura), vorrebbe dire raccontare in pratica mezzo secolo di storia greca.
Considero queste canzoni altrettanto belle, altrettanto profonde ed emozionanti dei più bei blues con i quali d’altronde presentano così tante somiglianze (l’unica, la sola grande differenza è che le origini del blues sono rurali mentre il rebetiko da sempre è stato la musica della città. I principali compositori popolari greci dei rebetika – Tsitsanis, Vamvakàris, Daskalàkis, Mitsàkis, Papaioànnu, Màthesis, Bàtis – sono sullo stesso livello dei più grandi compositori blues come Armstrong, Fals Waller e Sidney Bechet. La storia del blues è conosciuta. La storia del rebetiko non è stata ancora scritta ma sono sicuro che un giorno sarà scritta – da stranieri o da greci – perché si tratta di una creazione popolare di valore universale.(da quando ho scritto queste righe, la storia del rebetiko è stata scritta da un amico greco – Ilias Petropoulos – nel bellissimo libro edito ad Atene “Ta rebetika tragoudia”).

Sfortunatamente, il rebetiko, si è evoluto molto più velocemente del blues: principalmente a causa dell’in­fluenza del turismo, che in pochi anni ha modificato i luoghi, l’ispirazione e il modo di orchestrazione di queste melodie, così che il suo periodo autentico, quello in cui sgorga da solo dalle bocche e dalle dita dei compositori popolari, non dura più di mezzo secolo. Diciamo che i primi rebetika, con ritmi, atmosfere ed esecuzioni definite che non cambieranno successivamente, sono del 1920 circa. Prima esistono delle melo­die anticipatrici: i karsilamàdes di Smirne, gli hassapika di Costantinopoli, di Ponto, di Brussa e Aivali, gli amanédes detti “politici”(1). Esistono cioè dei luoghi di cui il rebetiko conserverà certi elementi (tra i quali, l’uso del­l’espressione aman-aman che ancora oggi, ogni tanto, si sente ancora) ma il rebetiko non ha oggi più di mez­zo secolo di vita – una vita oscura, per un lungo periodo, confinata nei bassi fondi del Pireo, di Salonicco, di Galaxidi e Kavala, prima di essere scoperto dall’intellighenzia e da certi snob della borghesia ateniese. Ne parlo qui con una certa precisione perché sono stato testimone di questa riscoperta del dopoguerra. E quindi sono costretto, ancora una volta, a parlare di me.



Nel 1950, facevo l’autostop da Atene a Salonicco, perché volevo andare sul Monte Athos. All’uscita di Larissa, dopo una breve visita a Meteora, mi ha caricato un camionista che andava a Salonicco. All’ora di pranzo ci siamo fermati a mangiare qualcosa in una piccola taverna, di strada, vicino ad un paese o piccola città di cui adesso non ricordo il nome. Abbiamo mangiato tranquillamente e aspettavamo che calasse un po’ il caldo afoso prima di continuare il viaggio. Al tavolo vicino erano seduti e mangiavano un gruppo di muratori. Uno di loro si alzò e mise un disco a 78 giri su un vecchio grammofono. Era un disco tutto rigato, messo e rimesso centinaia di volte, da cui usciva una voce nasale e lamentosa che, all’inizio, mi dava sui nervi.
Un uomo si alzò e iniziò a ballare. Da solo. Quasi immobile, senza una consequenzialità evidente nei passi, muovendo lentamente il corpo, con qualche rara giravolta, delle semplici figure che sembrava improvvi­sasse. Il camionista si rivolse a me e con quel gesto abituale della mano, che in Grecia esprime il piacere e la cosa bella – la mano tesa e le dita unite verso l’alto – mi dice: zeibekiko! La parola mi sembrò turca e non vi ho dato molta importanza. Dopo un po’ un operaio, vedendo che ero straniero, mi prese la mano e mi fece ballare. Ripetevo, come potevo, i movimenti.
Abbiamo ballato così per quasi due ore senza accorgerci che si era fatto tardi. Questo fu il mio primo – e insicuro – incontro con il rebetiko. Nasale, languida, lamentosa: era “Ase me, ase me, na se lismoniso” la canzone più in voga di quell’anno. Dopo quella volta ho ballato dappertutto (per riassumere ciò che divenne in seguito più di un legame duraturo, una vera passione carnale per la musica, la danza, tutto ciò che cono­sce e prova il corpo nello zeibekiko), in tutta la Grecia, in ogni occasione... nelle isole, nei porti, nei caffè del Pireo, a Perama, a Menidi (sotto il monte Parnitha) e a Salonicco vicino ai mercati generali. In quegli anni, questi posti, queste piccole taverne, non erano ancora frequentate dagli intellettuali snob di Atene. Solo pescatori, camalli, camionisti, rebetes e maghes – come vengono anche chiamati con un termine quasi intraducibile. E così, a poco a poco, mi sono imbevuto di tali melodie e di questi balli. Ho imparato a ballare come ballano i greci, per se stessi, per la gioia di esprimere con il corpo liberamente quello che ispira loro la musica, il ritmo, le parole (tra l’altro ho sempre avuto una predilezione per i rebetika lenti e severi, che tanto assomiglia­no ai canti funebri e rituali).
Una cosa mi ha fatto impressione. Quando, dopo il viaggio al Monte Athos, sono tornato ad Atene e ho parlato con i miei amici greci della scoperta del rebetiko, tutti hanno avuto la stessa reazione: è una musica da orsi! Musica popolare! Non voglio essere duro e fare dei nomi, ma molti degli amici di allora – pseudo artisti per lo più – oggi non parlano d’altro che di buzukia, come tutti gli snob che vanno a stiparsi nelle taverne – costruite e rifatte appositamente per loro.
Tutto ciò non ha molta importanza, ma trovo sempre divertente, nonchè appassionante, essere testimone della nascita di una moda, o di un interesse più serio. Per me la conoscenza dei rebetika è stata casuale. Me li ha fatti conoscere la man­canza di denaro, costringendomi per molti anni a vivere con i camionisti e i pescato­ri, a frequentare le taverne popolari e i piccoli caffè dove con cinque dracme mangiavi agnello al pomodoro e con tre dracme un piatto di musakà, sorta di pasticcio di melanzane ripiene, e con due dracme una porzione di pesciolini fritti. Sempre la mancanza di denaro ha fatto sì che io dormissi negli alber­ghetti di dubbia fama del Pireo – dove con 15 dracme avevo stanza e compagnia di numerosi scarafaggi – o quelle locande dormitorio, dietro piazza Omonia, dove con cinque dracme avevi un posto letto in uno stan­zone da otto-dieci posti. Sono entrato nel mondo dei rebetiko dalla porta stretta della povertà. Povertà che mi ha fatto scoprire la Grecia con il sentimento di una libertà indicibile.
Per me, prima di tutto, il rebetiko è questo: un’atmosfera e una canzone insieme, volti silenziosi e caratteri­stici al tempo stesso, confusi con voci e danze, odori mischiati di ouzo, retsina, segatura e cicche schiacciate. Più tardi, con l’imbastardimento, dovuto al turismo, queste piccole taverne hanno cambiato volto: vetrine al neon piene di aragoste surgelate, prezzi inavvicinabili, piatti e bicchieri apposta per essere rotti dai clienti che gridano “hopa” con aria stanca per far vedere che si divertono un sacco. Il rebetiko non è morto. È morta, invece, un’epoca, - e una verità. Prova ne sia il fatto che, a parte il buzuki, nessun altro strumento originario viene usato oggi, né il sazi né il baglamas, né il taburas né l’outi. Tutti sono stati sostituiti dalla chitarra e dall’accordeéon, dal violino e dal piano.
Nella loro storia presunta – come inizia a delinearsi e se ne possono trovare delle tracce in Grecia – il rebe­tiko e lo zeibekiko sono nati alla fine del XIX secolo nei quartieri poveri delle città dell’Asia Minore. Que­sta musica e questa danza sono principalmente fenomeni urbani. Non hanno quindi nessun rapporto con la musica tradizionale e folkloristica che è sempre di tradizione rurale.
I versi e la musica sono opera di artisti autodidatti e quindi composti da un preciso individuo conosciuto da tutti. Non ha importanza se dopo il suo nome diventa famoso e supera i confini di un caffè, del quartiere e della città, si tratta sempre di creazioni personali, non sono mai opere collettive o di anonimi.
Quando dico che i compositori, anche quelli famosissimi sono autodidatti, intendo dire che suonano da quando sono piccoli il loro amato buzuki o il baglamas e lo suonano ad orecchio, senza saper leggere le note. Tsitsanis può fare un arrangiamento orchestrale o trascrivere per se stesso quello che le sue dita improvvi­sano, ma Vamvakaris, uno dei più vecchi e dei più grandi, non ha avuto mai bisogno di leggere una nota sullo spartito (così almeno sostiene nella sua “Autobiografia”). È facile che dopo l’onda di curiosità suscitata dal rebetiko e la frequentazione di musicisti “acculturati” e famosi, come Hatzidakis e Theodorakis, che si ispirano a queste melodie, alcuni compositori abbiano iniziato a trascrivere ciò che una volta suonavano di istinto. Vamvakaris conosceva la musica in modo totalmente istintivo e da solo non avrebbe mai avuto l’idea di trascrivere le sue improvvisazioni. Come i vecchi cantastorie di una volta, era capace di suonare qualsiasi pezzo a memoria. Fortunatamente, grazie alle prime registrazioni dei rebetika intorno al 1920, conserviamo alcuni di questi capolavori che forse i loro stessi autori avrebbero potuto dimenticare. Perché tutti erano iper­produttivi e instancabili. È impossibile calcolare il numero esatto delle loro composizioni che superano per ognuno diverse centinaia. Il rebetiko, quindi, nasce nei quartieri greci delle città dell’Asia minore, principal­mente Smirne-Izmir, Aivali, Brousse-Bursa, Costantinopoli-Instambul, e altre ancora.
Gli strumenti che si usavano erano il buzuki, il baglamas, ma anche altri che oggi non si usano più – come l’outi o il sazi – che si suonavano ancora in Grecia negli anni ’30. Questi strumenti, come forma, assomigliano al mandolino, ma hanno registri diversi, soprattutto il buzuki che può avere più registrazioni, dal momento che ogni buzuki può avere dalle quattro fino alle dodici corde (di solito ne ha sei). Il prezzo di un buzuki può variare dalle 450 fino alle 20.000 dracme. Non esiste quindi il buzuki, ma buzuki e buzukakia. Inoltre, ogni registrazione produce un suono differente. Non so tradurre quel termine greco che usa Vamvakaris nella sua “Autobiografia” che sul tipo e lo stile del rebetiko, parte dal tipo “anihto” (aperto) fino al “karaduzèni” e il “Sirianò” (rebetiko grave) e fino all’“Arapiko” (l’Arabico) e lo Yurukiko, un altro tipo di rebetiko severo. Per parlare del rebetiko si ha bisogno di un dizionario particolare che qui non disponiamo.
E adesso il ballo (Choròs). Il ballo è indipendente dalla canzone perché uno può solo ascoltare senza ballare. Il nome zeibekiko, ci costringe di nuovo a tornare in Asia Minore e agli zeibekides. Erano greci e costituivano una specie di armata autonoma che sfuggiva al controllo dei turchi, i quali alla fine sono riusciti ad usarli dal momento che il loro sterminio è fallito. Erano più o meno 40.000 uomini nel secolo XIX. Erano, in un certo senso, nell’era turca il corrispettivo di ciò che i “kleftes e armatoloi” (2) erano nel 1821 per la Grecia; con la differenza che gli zeibekides non attaccavano particolarmente i turchi, ma agivano per conto loro. Un’intera mitologia è cresciuta intorno a questi indomabili guerrieri, che con le loro orde devastavano l’area di Smirne, Brusa e Aidinio. Marginali e seducenti – soprattutto per i Greci che avevano gli stessi usi e costumi, le stesse leggi, la stessa lingua (un dialetto locale greco), le stesse danze e canzoni. Il loro stile di vestizione era particolare e sensazionale. Portavano in testa un berretto dritto; e intorno al berretto attorcigliavano una sciarpa di seta, con frange che arrivavano fino alle guance. E guardando una vecchia litografia, penso che questo tipo di berretto sia uguale all’antico berretto di Frigia, il nome antico di quest’area dove agivano gli zeibekides. Portavano un gilet ricamato e pantaloni fino alle ginocchia. Fasciavano strettamente le gambe con strisce di stoffa. Ai piedi calzavano pantofole morbide di pelle. Come armi avevano una pistola, un machete (jatagani) e un coltello. Non facevano a meno di queste armi né quando dormivano né quando ballavano. Conducevano tra di loro una vita chiusa. Mangiavano carne affumicata e bevevano latte di cammello; fumavano continuamente hashish e non gradivano essere contraddetti. Così, possiamo forse immaginare come ballavano! Secondo un viaggiatore occidentale del XIX secolo, le loro danze erano danze di guerra, severe e lente, assomigliavano al Pyrichios choròs dell’area del Ponto, comunità greche del vicino Mar Nero. Quest’aspetto pesante, lento, in combinazione con lo stile minaccioso, spiegano in parte certi aspetti dello zeibekiko attuale. La lentezza che lo caratterizza, la giravolta e il ritorno, l’equilibrio misurato del corpo con le gambe immobili, sono forse l’espressione danzante della mastura, lo sballo ovvero l’ubriacatura dall’hashish.
Ma le cose più importanti nel rebetiko sono la musica e la poesia dei versi (che non si descrive con le parole).
Dopo la “catastrofe dell’Asia Minore”, sconfitta dell’esercito greco da parte di quello turco-ottomano, sotto la guida di Attaturk nel 1924 (dove un milione di greci della Turchia si rifugiano nelle isole dell’Egeo, vicine alla Tracia, e nelle periferie di Salonicco o Atene!), i profughi hanno portato in Grecia queste danze e queste canzoni. Lì si sono sviluppate e diffuse in un ambiente simile a loro, dove si parlava la stessa lingua, senza l’influenza turca.
Ci sono rime e dischi di quell’epoca eroica tra il 1920 e il 1940, che esprimono bene la nostalgia di quel periodo. Perché quello che dice colui che suona o che canta, il compositore autodidatta (o la cantante scelta) è il lamento profondo degli emarginati e dell’ipocosmo, una litania della miseria, un lirismo del sottoproletariato che con la danza e il canto, col vino e l’hashish, cerca di trovare l’unica possibile via d’uscita.
Il pianto e lamento continuo che così viene espresso ha un contenuto sociale e storico preciso. Si potrebbe scrivere una storia del sottoproletariato urbano ascoltando queste canzoni, la povertà, l’esilio e il confino e studiando la galera, l’amore sempre tradito o irraggiungibile, la deriva notturna per le strade, il rifugiarsi nelle taverne ombrose, la notte, l’hashish, il narghilè, la morte…. Ecco alcuni temi comuni del rebetiko.
Precisiamo che i rebetika sono sempre scritti in rima che la traduzione non può sempre rispettare. La canzone “Nichtosse choris feggari” (Una notte senza luna) (composizione di Kaldara del 1947) parla di un condannato. Di certo si tratta di un prigioniero politico della guerra civile – esempio sacro di rebetiko con toni politici.
La fuga del rebetis, del maghas sono il vino e l’hashish. Il primo, naturalmente, è più semplice. Di vino, di ubriacatura, di taverne parlano quasi tutti i rebetika, ma di un vino triste, nero e pesante, vino che bevi per dimenticare non per fare festa e cantare. Tsitsanis, uno dei maestri del rebetiko, lo esprime meravigliosamente in una canzone del 1950 nel “Otan pinis stin taverna kathesse ke then milàs” (Quando bevi nella piola senza dire una parola)…….
L’altra fuga, quella più legata alla storia del rebetiko, è l’hashish. Hashish fumavano tutti i frequentatori della taverna e del teké. Il teké era un caffè dove si fumava il narghilé. Due volte mi è capitato di fumare, senza però arrivare a quel punto, così tante volte descritto dai rebetika, della fase della mastura. Molte canzoni usano una serie di termini, vero e proprio piccolo dizionario, per descrivere le cose e la situazione psichica dell’hassiklis – parole che non si traducono. In più, dal 1944, la censura proibisce ogni riferimento all’hashish. Così, espressioni abituali, come cannabis, si sono sostituite con altri termini e piante. Farò qui un esempio di una tema famoso, lo ha scritto nel 1935 Robertakis e lo troveremo più avanti in molte varianti……..

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